19 agosto 2006

Caracas. Pare!


“Fermati”, il segnale che ti ordina di fermarti allo stop perché procedere è proibito se si vuole evitare uno scontro.
Una sensazione di blindatura e di difesa ad oltranza sembra invaderti quando arrivi a Caracas. Un’atmosfera dove la tensione e il malcontento è palpabile. Una tristezza infinita aal vedere ville e case molto belle chiuse “perché sono andati via”, oppure case chiuse dentro nel perimetro da alti muri messi insicurezza dal filo spinato. Recinti di case che portano un ulteriore rialzamento con quattro fili in tensione elettrica. In ogni realtà o istituzione c’è la guardiola con il custode o l’uomo della sicuritas.
Anche la Parrocchia di Pompei tenuta dai padri scalabriniani non sugge alla regola generale della Caracas affollata nei suoi barrios da oltre 6 milioni di persone. Gli spazi sono limitati, le montagne sono a ridosso e le misere abitazioni sono inchiodate lungo le pendici. I racconti che asclti ti levano ogni velleità di uscire e girare da soli e spesso anche in compagnia ti sembra che solo certi quartieri o municipi sembrano ospitare persone più serene che possono vivere con una certa tranquillità. Anche il centro italiano, grande, infinito con ogni struttura ben costruita per ogni esigenza, se da una parte presenta la dedizione di dare spazio a quanto serve per una collettività e lo sviluppo di ogni famiglia, dall’altro hai la sensazione che è un benessere blindato entro i confini ben protetti dove entrano e ne usufruiscono per lo più i solo soci.
Gli italiani associati al centro italo venezuelano non superano la percentuale del 25% e comprendo per lo più il ceto alto della colonia italiana. L’altro 75% non lo si vede proprio, mischiato com’è nei barrios di vecchia data e consolidati da abitazioni di una certa dignità dove si vivono tranquillamente gli italiani, funzionari, diplomati e laureati anche se con occupazione precaria e per nulla sufficiente per arrivare alla fine del mese, commercianti e liberi professionisti e dipendenti normali con una fatica enorme a mantenere quanto hanno concretizzato fino ad oggi.
In molti c’è il desiderio tormentato che fa pensare il viaggio verso l’Italia come la possibilità più saggia da percorrere a breve termine. Alcuni, toccati da vicino dalla violenza che rapisce, aggredisce, sequestra, non riescono a contenere la drammaticità della loro ferita e fa loro urlare con toni bassi e appena sussurrati che vogliono partire ma non sanno cosa troveranno in Italia perché hanno paura di non riconoscerla più.
La maggior parte delle famiglie italiane gestiscono la loro quotidianità in una normalità che li vede accanto ai venezuelani e alle persone che vivono le stesse precarietà del territorio, condividono le stesse possibilità ed opportunità esistenti, soffrono con rabbia per le esclusioni che un potere arrogante determina in base alle appartenenze politiche, spera per i figli partiti all’estero per tentare un formazione ed un’occupazione che assicuri speranze credibili, si avvicina alle parrocchie e ai loro preti dove partecipano ad iniziative che riconoscono come riconosciute dalla loro sensibilità religiosa e condividono preghiera e ascolto di una parola che dà conforto.
In questa maggioranza degli italiani, compresa in pieno nell’invisibilità comune alla più parte degli emigrati della prima generazione sparsi nel mondo, c’è una sacca e purtroppo non piccola, di indigenti che oltre a non aver più nulla, portano un peso terribile della solitudine, perché non hanno più nessuno su cui contare. Quando arriva la malattia o la miseria la decadenza e la fine si fanno repentine. Spesso non si sa chi sono, dove abitano, di cosa hanno bisogno. Qualcuno ha tentato un monitoraggio per costruire numeri e situazioni e dare concretezza alla proposta di un sussidio di indigenza da assicurare quale pensione minima di sopravvivenza.
Le iniziative non mancano sia da parte dei Comitati di assistenza, sia dalle associazioni di volontari collegate alle parrocchie italiane o agli stessi patronati e ai club italo-venezuelani. E’ comunque urgente intervenire per ridare fiducia, per consolare, per ritrovare stimoli ad unire forza e convincimento in una resistenza che diventa sempre più indispensabile.
Si deve fare i conti con la fatica a mettersi in rete per una sussidiarietà che garantisce una migliore coordinazione ed una migliore distribuzione delle poche risorse disponibili.